Da quando fotografare il cibo è diventato fashion? Probabilmente da quando dietro al significato di uno scatto ha iniziato a celarsi la voglia di renderlo appetibile in (e per) tutti i sensi.

Ma se si volesse trovare un ‘anno zero’ per la nascita della Food Photography, quello sicuramente è il 1832 e se si volesse collocare geograficamente l’inizio di questo filone bisognerebbe andare a New York.

La Grande Mela come palcoscenico più che come soggetto immortalato, perché Joseph Nicéphore Niepce scelse un tavolino apparecchiato. Minimal, distante anni luce dai dipinti con tavole imbandite e abbondanza di portate su tavoli lunghi, affollati e colorati.

Ai tempi di Niepce chiaramente la fotografia fermava l’immagine in bianco e nero per forza, non per scelta ‘fanatica’ o ‘epica’ grazie a qualche filtro utilizzato più per noia che per slancio creativo.

La Food Photography infatti rifugge i troppi artifici cromatici delle nuove tecnologie. Perché usarli? Perché deformare un gusto? Alla fine è di gusto che si parla se il fine è rendere efficace una foto gastronomica…

In un piatto si prova ad esprimere tutta la potenza di un senso sopito, rianimato dalla personalissima percezione che questo provoca in chi lo osserva. L’esercizio dunque non deve essere necessariamente ‘vanitoso’, quello è riservato a ben altri panorami, bensì realistico. Ed è in questa definizione che si esprime al massimo la vanità culinaria, fotograficamente parlando.

E se di artifici vogliamo parlare (senza abusarne), che venga lasciato a quelle esperte manovre utili a trovare l’illuminazione giusta, l’inquadratura migliore, lo sfondo più adeguato, il piatto che possa valorizzare il contenuto. Perché alla fine è la percezione di quella bontà non assaggiata ma consumata comunque che crea la magia e uno scatto efficace. Per passare agevolmente, inconsapevolmente e giustamente dal ‘tanto bello che sembra finto’ al ‘tanto bello che sembra vero’. E assaporare una foto diventa semplice come guadarla.